L’intervento della NATO in Libia, nel contesto della “primavera araba”, dimostra ancora una volta come l’Occidente non abbia abbandonato i suoi disegni egemonici. Nonostante il fenomeno delle sommosse sia complesso, la “guerra umanitaria” e la difesa difforme delle rivolte a seconda del contesto in nome della democrazia cela interessi geopolitici ben precisi e la volontà di esportare un modello economico, politico e culturale uniforme. Questa strategia è connessa alla competizione globale in corso con le potenze emergenti del futuro, soprattutto la Cina, ma anche l’India.
Alla fine degli anni ’90 cominciò ad essere utilizzato un nuovo concetto descrivente i nemici contemporanei degli Stati Uniti, e in secondo luogo di alcuni alleati europei; ovvero l’idea dell’esistenza dei cosiddetti “Stati canaglia”. A quell’epoca si parlava dell’inizio del “secolo americano”, vista la recente vittoria statunitense nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Una fase storica nuova, in cui Washington avrebbe ricoperto il ruolo di unica superpotenza del globo, ma che allo stesso tempo, in assenza di un vero e proprio nemico come l’URSS, avrebbe dovuto fronteggiare delle nuove minacce, ostacolo al proprio progetto di guida per il mondo intero. Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord e Sudan erano i cosiddetti “Stati canaglia”, i quali, in particolar modo i primi cinque, sono situati in posizioni fondamentali dal punto di vista geopolitico per le risorse presenti nei loro territori o per il possibile ruolo strategico di transito di gasdotti e oleodotti. Nell’ultimo decennio Afghanistan e Iraq sono stati invasi e i loro regimi rovesciati. Nonostante Kabul si trovi tutt’ora in una situazione di precario equilibrio, il paese dell’Hindu Kush e l’Iraq non sono più considerati ufficialmente come Stati nemici. Il Sudan è oggi diviso, ma il nord del paese, malgrado sia stato indebolito, rimane un regime scomodo per l’Occidente. Cuba sembra avviarsi, per il dopo Fidel Castro, a ritornare, come prima della rivoluzione, maggiormente legata agli Stati Uniti, mentre la Corea del Nord appare l’unico paese che probabilmente riuscirà a scongiurare un intervento militare e un’ingerenza esterna. Recentemente, nel contesto della cosiddetta “primavera araba”, è stato invece il turno della Libia. Il paese africano, nell’ottica occidentale, si trova oggi “liberato” grazie al concreto supporto della NATO e al rovesciamento del regime di Gheddafi. I toni bellicosi nei confronti della Siria e dell’Iran degli ultimi mesi sembrano presagire che altri due Stati riceverranno la medesima attenzione e il trattamento richiesto nel medio-lungo periodo, con la successiva cancellazione dalla lista nera, somministrando una buona dose di “democraticità”. Damasco potrebbe essere investita da una nuova guerra per la difesa dei diritti umani, principalmente voluta dai settori liberal della politica statunitense; mentre un attacco all’Iran verrebbe maggiormente sponsorizzato dal gruppo neoconservatore e dall’alleato israeliano Netanyahu (Per un confronto tra neocons e neorevisionisti israeliani vedi il libro di Francesco Brunello Zanitti Progetti di egemonia).
Ipotesi sui motivi della guerra in Libia. La “nuova corsa” all’Africa
L’intera vicenda legata alla Libia non è stata causata solamente dall’onda lunga delle rivolte arabe. A questo proposito appare necessario ribadire che le sommosse nei paesi arabi non rappresentano un movimento uniforme, nonostante sia indubbio che esista una forma di malcontento nelle masse arabe per svariati motivi. In realtà vi sono in gioco diversi interessi di movimenti politici e religiosi, i quali hanno goduto o godono tutt’ora di un appoggio esterno, differenti a seconda del contesto regionale e del paese preso in considerazione (Per un approfondimento delle rivolte arabe vedi il libro di Daniele Scalea e Pietro Longo Capire le rivolte arabe). Inoltre, le uniche rivolte in cui si è registrato un massiccio e concreto intervento esterno militare, superiore rispetto ad altri casi, sono state quella libica e quella in Bahrain. La prima è stata favorita, la seconda stroncata. Chiara esemplificazione della complessità del fenomeno “rivolte arabe” e di come questo è stato letto, nell’ottica occidentale, in una maniera distorta per soddisfare i propri obiettivi strategici.
Gheddafi era, a differenza di Mubarak o Ben Ali, un nemico di molti paesi occidentali per le azioni compiute nel passato, nonostante negli ultimi anni ci fosse stato un miglioramento dei rapporti (avvicinamento pagato a caro prezzo dal Ràis, vedi l’articolo di Daniele Scalea Il prossimo Nobel per la pace). Si è verificato in sostanza un cambio di regime dettato da esigenze di carattere geopolitico, mediante l’aiuto notevole e indispensabile offerto da parte dell’Occidente, Stati Uniti in testa. Infatti, appare altamente improbabile che Washington, nonostante il ruolo assunto da Gran Bretagna e Francia sia stato preponderante, non abbia avuto voce in capitolo per il futuro dello Stato libico.
Il pensiero politico di Gheddafi può essere criticato, così come sono da condannare alcuni suoi eccessi violenti del passato o la propria politica interna. Senza dubbio però non è da dimenticare il fatto che il regime quarantennale del Ràis ha favorito la crescita del proprio paese, la cui economia era una delle migliori del continente. Godeva di un vasto appoggio popolare, ma naturalmente aveva anche numerosi nemici, fattore strettamente connesso al carattere tribale e frammentato della società libica. Inoltre, particolare non di poco conto, Gheddafi si era fatto promotore di una possibile Unione Africana, un movimento panafricano avente come obiettivo una maggiore autonomia del continente nel contesto della geopolitica globale, ma anche un progetto scomodo per chi considera l’Africa un territorio da controllare.
Ciò che è stata descritta come “guerra umanitaria”, un ossimoro scandaloso, non ha suscitato il minimo sdegno, salvo rari casi, da parte dell’opinione pubblica occidentale e della società civile, molto critica ad esempio quando venne attaccato l’Iraq. Forse perché in quel caso gli Stati Uniti avevano calpestato alcuni interessi commerciali di altri paesi importanti, come la Francia e la Germania. Oppure perché Gheddafi era un personaggio scomodo e gran parte dell’opinione pubblica rapita dall’effetto mediatico della cosiddetta “rivoluzione democratica” nel mondo arabo. Si è data una lettura parziale della guerra, senza comprendere le divisioni tribali all’interno dello Stato libico, la diversità tra la Tripolitania e la Cirenaica, le conseguenze imprevedibili per le sorti delle tribù leali a Gheddafi, una volta saliti al potere i gruppi tribali provenienti dal settore orientale del paese e maggiormente inclini a un islamismo radicale; così come la futura divisione della Libia in una componente araba ostile a quella nera e africana. È evidente il fatto che la Libia abbia fatto gola per le proprie risorse di idrocarburi e un potenziale governo alleato dell’Occidente sarà un vantaggio strategico per i paesi della NATO.
Una lettura approfondita dell’intera vicenda legata alle rivolte arabe, ma nello specifico soprattutto al caso libico, è connessa, inoltre, alla competizione che è riesplosa in Africa per l’influenza strategica sui paesi del continente e il controllo delle risorse. Competizione con le potenze emergenti, soprattutto la Cina, ma anche l’India. I due paesi asiatici stanno investendo massicciamente in Africa e vengono spesso presentati nello stesso tempo in competizione tra loro nel contesto africano, per gli evidenti interessi occidentali generati da un possibile “scontro” tra Pechino e Nuova Delhi. Inoltre, gli Stati africani potrebbero dimostrarsi nel lungo periodo maggiormente “liberi” di giocare la carta cinese o indiana in caso d’ingerenza esterna; questa è naturalmente una concreta minaccia per gli intenti egemonici degli Stati Uniti e dell’Europa. La Cina ha molti interessi rivolti alla Libia, così come l’India; senza dimenticare che nel paese africano era presente una numerosa manodopera indiana, costretta a lasciarlo una volta iniziato l’intervento della NATO.
Un altro fattore da riconsiderare è legato, inoltre, all’aumento dei prezzi di prima necessità, ovvero degli alimenti, in particolar modo del grano. Sovente le accuse dei media vengono rivolte alla Cina e all’India: secondo la spiegazione tradizionale, la crescita economica e l’impennata della domanda interna di generi alimentari di prima necessità dei due giganti asiatici genererebbero l’aumento del prezzo del cibo a livello globale. Quest’ultima considerata spesso una delle ulteriori cause per lo scoppio del disagio sociale nei paesi arabi e dunque delle rivolte. In realtà, come sostenuto dall’attivista Vandana Shiva, la recente speculazione della grande finanza e delle multinazionali occidentali si sarebbe spostata dal settore immobiliare (causa della crisi del 2008) a quello alimentare, comportando un generale aumento del prezzo dei generi di prima necessità, il quale si fa sentire maggiormente nei paesi poveri. La globalizzazione agricola è uno svantaggio in primo luogo per i contadini cinesi e indiani. In Cina e India il consumo pro-capite di generi alimentari sarebbe addirittura diminuito, a causa dell’aumento dei prezzi e, soprattutto nel caso indiano, i piccoli contadini avrebbero perso la loro autosufficienza alimentare per l’introduzione dell’agricoltura industrializzata che predilige, seguendo i dettami della globalizzazione, l’utilizzo della terra indiana per l’esportazione (vedi articolo La globalizzazione e l’agricoltura del Terzo Mondo).
La competizione economica e politica è nel mondo contemporaneo sempre più in aumento. In diversi teatri regionali si registra un’evidente competizione geopolitica per il controllo delle risorse strategiche e dei paesi che potrebbero ricoprire il ruolo di transito per l’approvigionamento energetico di terzi. E’ altamente improbabile uno scontro diretto tra l’Occidente e i paesi in ascesa, ma gli interessi dei singoli Stati possono essere colpiti in diverse maniere. L’Africa è un grande territorio di competizione, dove i paesi occidentali hanno recentemente ripreso ad intervenire massicciamente e l’US Africa Command (AFRICOM) è molto attivo; unitamente al caso libico sono da registrare negli ultimi mesi l’intervento della Francia in Costa d’Avorio (vedi articolo Francia e Costa d’Avorio: una visione geopolitica dei rapporti con l’ex colonia), l’appoggio USA alla divisione del Sudan, così come lo smembramento della Somalia; ultimo capitolo è l’invio la scorsa settimana di truppe statunitensi in Uganda, ufficialmente per colpire dei gruppi armati somali presenti nel paese. L’Uganda sembra essere attraversata negli ultimi mesi da una rivolta sociale che ha come modello le sommosse arabe. Truppe statunitensi sono presenti anche negli Stati limitrofi: Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo. La competizione è molto forte anche in Vicino Oriente, Asia Centrale e Meridionale, dove sono presenti le più grandi riserve a livello mondiale di petrolio e gas naturale. Le repubbliche ex sovietiche dell’Asia, l’Afghanistan e il Pakistan rappresentano i territori di transito di potenziali pipeline per supportare l’approvigionamento energetico e la crescita economica di Cina e India. Il recente e quotidiano scontro verbale tra Washington e Islamabad unitamente al possibile aumentare della conflittualità regionale potrebbero svantaggiare indirettamente Pechino e Nuova Delhi. La stabilità regionale sarebbe più confacente ai loro interessi visto che sono due paesi certamente molto influenti a livello regionale, nel caso cinese anche globale, ma in fase di crescita e non ancora vere e proprie superpotenze. I paragoni storici non sono totalmente opportuni perché ogni periodo della storia è caratterizzato dalle proprie peculiarità a seconda dei diversi contesti e circostanze; la fase storica che stiamo attraversando sembra però sempre più simile alla competizione tra imperi europei avvenuta tra XIX e XX secolo.
Il doppio “binario” dell’imperialismo occidentale: geopolitica ed esportazione di un modello
La competizione in corso, non solo in Africa, ruota intorno a un differente centro di potere che probabilmente si sposterà sempre più verso Oriente. Gli Stati Uniti appaiono come un impero attraversante la sua fase calante, seguito dall’Europa, e come tutte le potenze imperiali della storia tenterà fino all’ultimo di evitare la propria caduta, disponendo ancora, nonostante l’evidente crisi economica, del più potente esercito a livello mondiale.
Il caso libico offre un’ulteriore riflessione collegata a quest’ultima considerazione. L’egemonia statunitense non è solamente legata alla geopolitica, ma è connessa all’esportazione di un determinato sistema di valori e a una precisa cultura politica, economica e sociale. Come si può vedere nel caso dell’Europa odierna, il modello statunitense sembra essere stato efficacemente esportato nel Vecchio Continente. Quest’ultimo appare contraddistinto, come sosteneva il giornalista Tiziano Terzani, da uno strano complesso d’inferiorità nei confronti degli Stati Uniti, dovuto in gran parte alla vittoria di Washington durante la Seconda guerra mondiale. Il paese del manifest destiny ha avuto fin dalla sua nascita un’autopercezione del proprio carattere d’eccezionalità, possedendo una potente civil religion utilizzata politicamente all’estero, avente come obiettivo l’esportazione e l’insegnamento agli altri popoli del proprio modello di vita. Ed è quello che è avvenuto in Europa e in altre zone del mondo nel corso del XX secolo. L’intervento in Libia, come per l’Afghanistan e l’Iraq, è spiegato sovente come un diritto-dovere dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare, d’intevenire in ogni area del globo, in nome di una sorta di superiorità culturale e morale per insegnare agli altri popoli il corretto modo di vivere. Un compito che l’Occidente si assume faticosamente, una sorta di nuovo “fardello” per la civilizzazione del mondo, spiegato mediante la difesa della democrazia e dei diritti umani. Sappiamo bene che queste sono sovente le giustificazioni che vengono offerte per coprire intenti di egemonia geopolitica. Esiste in ogni caso una sorta di doppio “binario” nella strategia imperiale statunitense che coinvolge la politica e l’economia: uno volto al dominio geopolitico per il soddisfacimento dei propri meri interessi, l’obiettivo primario e preponderante; l’altro volto all’esportazione del proprio modello culturale ed economico, un fattore di uniformità che richiede più tempo, ma che in certi luoghi ha avuto successo; la globalizzazione spinta da multinazionali soprattutto occidentali è un’espressione di questo secondo “binario”.
Ci è stato spiegato che l’Afghanistan doveva essere “liberato” anche perché i talebani imponevano il burqa alle donne, senza sapere il valore culturale nella società afghana, può dar fastidio ma è così, di questa veste femminile. Dovrebbe essere fatta chiarezza, in realtà, anche sul primo “binario”, quello geopolitico; ovvero il rifiuto del regime talebano alla fine degli anni ’90 dell’accordo con la multinazionale Unocal per il passaggio di un gasdotto in territorio afghano.
Anche le stesse rivolte arabe vengono spesso presentate nelle loro descrizioni come delle azioni volte all’instaurazione di una società immagine dell’Occidente senza analizzare l’intero quadro politico, culturale e religioso che è ben più complesso. Si è parlato della vittoria di Internet, di Facebook e Twitter, descrivendo una realtà composita nel modo in cui si vuole, piuttosto di come essa è realmente.
Inoltre, lo “scontro di civiltà” in questo caso non sussisterebbe, perché sono cambiati i protagonisti della politica statunitense. Mentre i neoconservatori spingevano soprattutto a livello mediatico sullo scontro tra civiltà e barbarie, l’amministrazione statunitense odierna, rifacendosi al discorso di Obama al Cairo, e i governi europei dei paesi della NATO hanno presentato i ribelli libici come “buoni musulmani” volti all’instaurazione della democrazia in Libia. Ecco perché cominciano a destare uno scandalo ingiustificato, per giunta solamente ora, le affermazioni di Jalil, secondo il quale la Sharia sarà la legge di Stato. Il fatto è che l’Occidente ha utilizzato, come nel caso afghano durante l’invasione sovietica, e utilizza ancora oggi, a seconda dei contesti, gruppi radicali per favorire i propri interessi strategici, disponendo dell’antica tattica del “divide et impera”. In realtà la scontro tra culture è sempre latente e spesso favorito dall’Occidente, poiché nel caso libico sta aumentando la conflittualità tra la componente araba da una parte e i gruppi africani e neri dall’altra. Nello stesso tempo all’opinione pubblica occidentale era comunque necessario spiegare il perché dell’intervento in Libia, sostenendo la difesa di “ribelli democratici”. L’ipotetica instaurazione della Sharia non appare una novità, visti i legami del CNT con i gruppi islamisti radicali, il Qatar e l’Arabia Saudita (vedi articoli Tripoli: capo di un gruppo islamista alla guida dei “ribelli” libici; Come al-Qaida è arrivata al potere a Tripoli), quest’ultima favorevole ai gruppi wahhabiti dall’Africa settentrionale al Pakistan. A proposito di Riyad, in questo caso il “binario” morale e culturale della superiorità occidentale da esportare s’interrompe, mentre quello geopolitico continua: è più importante il legame politico con il regno saudita e i vantaggi derivati da questo; Riyad non viene criticata per la sua assenza di democrazia o per essere stata l’artefice del soffocamento di una rivolta di stampo sciita in Bahrain mediante un intervento militare.
La stessa cattura e violenta uccisione, senza un giusto processo, di Gheddafi potrebbe portare a ulteriori riflessioni. Nell’epoca della spettacolarizzazione della violenza e della morte, come fosse una sorta di reality televisivo, destano sgomento i commenti in tempo reale del capo del Dipartimento di Stato americano, Hillary Clinton, ripresi in diretta mentre osserva compiaciuta le notizie della condanna di Gheddafi. Ecco come crolla la presunta superiorità morale e culturale occidentale. È la rappresentante dell’amministrazione del premio Nobel per la pace Obama, il quale nel 2008, a margine di una visita in India, disse di avere come punto di riferimento un orientale, il Mahatma Gandhi. Ebbene, in un’epoca orwelliana, dove la coerenza politica non ha più senso, così come il significato delle parole sembra non avere più valore (vedi il comportamento dell’Italia nell’intera vicenda libica), il presidente degli Stati Uniti farebbe bene in vista delle prossime elezioni a scegliere una fonte d’ispirazione diversa, senza scomodare una personalità del valore di Gandhi, il quale combatteva a suo modo l’imperialismo. La Libia entrerà in una spirale di violenza ancora più forte, di cui l’Occidente dovrà rispondere. È un’altra contraddizione molto forte con l’idea di essere portatori di una superiorità morale. In attesa della prossima “guerra umanitaria” e di una nuova spirale di violenza a difesa della democrazia in un altro Stato “canaglia”.
*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).
Altri articoli sulla morte del colonnello M. Gheddafi:
Il linciaggio di Gheddafi e l’etica tribale dell’Occidente (Claudio Moffa)
Le ultime volontà di Mu’ammar Gheddafi (Redazione)
L’ultimo messaggio di Gheddafi all’Italia (Redazione)
Il prossimo Nobel per la pace (Daniele Scalea)
Il “prezzo del sangue”: perché Gheddafi è stato ucciso (ma la guerra non finirà lo stesso) (Matteo Finotto)
Brevi considerazioni dopo la morte di Muammar Gheddafi (Costanzo Preve)
Il linciaggio di Muammar Gheddafi (Thierry Meyssan)Per approfondire (dalla rivista “Eurasia”):
Geopolitica dell’energia: l’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo (Dario Giardi)
La politica estera italiana nel Vicino Oriente (Pietro Longo)
La nostra Africa (Fabio Mini)
Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo (Claudio Mutti)
L’Africa nella politica estera italiana (Daniele Scalea)
L’Italia tra l’Europa e il Mediterraneo (Daniele Scalea)
Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (Alberto B. Mariantoni)
L’Europa e l’area euro-mediterranea (Costanzo Preve )